Battaglie In Sintesi
14 maggio - 19 giugno 1097
Figlio e successore di Süleyman I nel 1086, egli divenne ostaggio nelle mani del Sultano selgiuchide Malik Shah I, finendo però con il riacquistare piena libertà di movimenti poco prima della morte nel 1092 di Malik Shah. Qilij Arslan marciò allora, alla testa di contingenti turchi Oghuz Yiva e istituì un proprio dominio in Anatolia, con capitale Nicea (oggi Iznik, sostituendo Amin al-Ghazni, il governatore nominato da Malikshah. A seguito della morte di Malik Shah, le componenti tribali turche dei Danishmendidi, dei Mengugekidi, dei Saltuqidi, di Chaka, dei Bey Tengribirmishidi, degli Artuqidi e degli Akhlat-Shah cominciarono ad organizzarsi autonomamente, con l'idea di ritagliarsi un proprio dominio nei territori a suo tempo conquistati dai Grandi Selgiuchidi. Gli intrighi dell'Imperatore bizantino Alessio Comneno complicarono ulteriormente la situazione. Qilij Arslan sposò intanto la figlia dell'Emiro Chaka, che aveva organizzato una potente flotta con l'aiuto dei greci smirnioti, grazie alla quale aveva creato gravi pericoli a Bisanzio, strappandogli le isole di Chios, Lesbo e Samo. Nel 1094, Qilij Arslan ricevette un messaggio di Alessio in cui questi lo informava che Chaka pensavano di colpirlo per marciare poi contro i Bizantini. Qilij Arslan marciò allora con un esercito su Smirne, capitale di Chaka, e invitò suo suocero a un banchetto nella sua tenda, nel corso del quale lo fece uccidere. La figura di Qilij Arslan è conosciuta nella storia occidentale quasi solo per l'azione di contrasto attuata nei confronti dei Crociati che, dalla lontana Europa latina, si proponevano di conquistare la Siria-Palestina, prendendo di nuovo il controllo del Santo Sepolcro di Gesù a Gerusalemme. Il sultano dovette mettere da parte le sue conflittualità coi danishmendidi e rivolgersi al pericolo proveniente da occidente.
La prima occasione di scontro fu il massacro dei partecipanti alla cosiddetta "crociata dei pezzenti" che, partita senza arte né parte dall'Europa, costituì il preludio alla vera e propria crociata, la prima, guidata da Raimondo IV di Tolosa, Goffredo di Buglione, Boemondo di Taranto e Baldovino delle Fiandre. Qilij Arslan distrusse questo esercito di disperati in due occasioni, appena entrato nei suoi territori in Anatolia centrale, dopo che questi si erano resi responsabili di disordini e saccheggi e avevano osato marciare su Nicea. Alla fine del 1097 una seconda ondata franca investì il suo regno. Stavolta non si trattava solo di pezzenti, ma di diverse schiere occidentali dirette in Palestina. I Franchi, sostenuti dai bizantini, circondarono Nicea, capitale del sultanato, ma un tentativo di liberarla il 21 maggio fu vano e il sultano fu costretto ad abbandonare la città, che non sarebbe stata più turca per altri due secoli. In giugno, presso Dorileo, operò un ulteriore tentativo di contrattacco, ma l'imboscata tesa ai danni dei crociati non riuscì a sortire l'effetto sperato, anzi l'armata selgiuchide fu completamente annientata. Le voci della sconfitta si riverberarono in tutto l'oriente, diffondendo panico e sgomento.
Figlio (n. 1065 circa - m. 1111) di Roberto I il Frisone, cui succedette (1093). Oppositore dell'Impero, prese le parti del papato nella disputa per l'istituzione della nuova sede episcopale di Arras e appoggiò il candidato del pontefice nel vescovato di Cambrai. Nel 1096, partito alla volta della Terrasanta, partecipò alla prima crociata; ritornò in patria nel 1100.
Passato ch'ebbero i Crociati lo stretto del Bosforo, si volsero con tutti gli spiriti alla guerra saracenìca. Ricorderassi il Lettore che i Turchi Selgiucidi sotto il regno di Michele Ducas avevano fatta irruzione nell'Asia Minore; l'imperio per essi fondato stendevasi dall'Oriente e dall'Eufrate fino a Nicea. I Turchi erano barbari sopra tutte le altre nazioni mussulmane; non avendo navi, non eransi neppur curati di conquistar le sponde del mare, ma avevano occupate le più ricche provincie, delle quali lasciavano l'agricoltura ai Greci divenuti loro schiavi e tributari. I Turchi dell'Asia Minore vivevano sotto tende, non d'altro occupandosi che di guerra, nè altre ricchezze procacciando che il bottino e le rapine. Loro capo era il figliuolo di Solimano, a cui le conquiste fatte sopra i Cristiani gli avevano acquistato il soprannome di Campione Sacro. Il figliuolo aveva nome Davide ed era soprannominato Chilìge Arslan, ovvero Spada del Lione; cresciuto fra le turbolenze delle guerre civili, e tenuto molto tempo prigione in una fortezza del Chorasano per ordine di Malec Saac, dopo molte vicende, ricuperato alla fine il trono paterno, mediante il suo valore vi si manteneva. Adornavalo genio fecondo di spedienti in ogni occorrenza, e fermezza di carattere nella sinistra fortuna. Avvicinandosi i Crociati, egli chiamò in sua difesa i sudditi e gli alleati; e da tutte le provincie dell'Asia Minore e ancor dalla Persia i più coraggiosi difensori dell'islamismo accorsero sotto le sue bandiere. Non contento d'aver accolto un buono esercito, fin dal primo sentore della soprastante tempesta aveva avuto cura di ben fortificare la città di Nicea, sulla quale era per iscaricarsi il primo nembo della guerra. La qual città, capitale della Bitinia e celebre per esser ivi stati celebrati i due gran concilii della Chiesa, era allor sede dell'imperio o del paese di Buma. I Turchi da quel luogo spiavano l'occasione favorevole per assaltare Costantinopoli e irrompere in Occidente. Frattanto l'esercito cristiano avea fatto massa a Calcedonia, da dove mosse contro Nicea, avendo a destra la Propontide e le isole de' Principi, a manca montagne boscose nelle quali presentemente si veggono alcuni villaggi turchi. Trovansi sul cammino le mine dell'antica Pandicapium e quelle di Libissa, famigerata un tempo a cagione del sepolcro di Annibale ed oggi misera borgata mussulmana. Dopo alquanti giorni di cammino i Crociati giunsero a Nicomedia dove soprastettero tre altri giorni. Nicomedia giace nel fondo del golfo al quale ha dato il nome, avendo a tergo una grande collina. Restavale allora qualche parte del suo antico splendore, ma presentemente anch'essa è divenuta povero borgo che i Turchi dicono Ismid. Partito di Nicomedia il cristiano esercito procedette verso Enelopoli, avendo a occidente il golfo, e a oriente la grande catena dell'Argantone. Enelopoli ora Ersec appellata, dista da Nicomedia undici leghe e quattro o cinque da Civitota ovvero Ghemlicca. Trovandosi vicino a questa città l'esercito cristiano, accorsero nel suo campo alcuni dei Crociati dell'Eremita, che salvatisi dalla strage s'erano nascosti nelle montagne e nelle foreste vicine; molti de' quali erano da poveri cenci ricoperti, alcuni affatto ignudi e non pochi feriti. Consunti dalla fame, difendevano a mala pena le ultime faville della loro miserabil vita, che aspro conflitto avea sostenuto contro l'inclemenza delle stagioni e contro la ferocia de' Turchi. La presenza di que' miseri fuggitivi, la narrazione de' loro patimenti, inflissero profondamente i soldati cristiani e li mossero al pianto. Quei miseri mostravano a oriente la fortezza ove i compagni di Rinaldo, vinti dalla fame e dalla sete, s'erano arresi ai Turchi, che ne fecero strage; poco distante mostravano le montagne alle falde delle quali i compagni di Gualtiero perirono col loro capitano.
Silenziosi camminavano avanti i Crociati e dappertutto trovavano ossa umane, brani di stendardi, lancie infrante e armi di polvere e di ruggine coperte, miserevoli avanzi dello sconfitto esercito. Ma più crudele a vedersi era il luogo ove fu il campo di Gualtiero nel quale avea lasciato le donne e i malati, quando mosse co' soldati contro Nicea; poichè avendovi fatta irruzione i Mussulmani nel tempo appunto in che i sacerdoti celebravano il sacrificio della messa, le donne, i fanciulli, i vecchi e tutti coloro che per istanchezza o malattia erano rimasi nelle tende, inseguiti fino a pie degli altari, erano stati tratti in ischiavitù o dall'efferato nemico trucidati; rimanendo nel luogo medesimo i corpi degli uccisi senza sepoltura; onde allora se ne vedevano ancora i mucchi degli ossami, e rimaneanvi le fosse scavate intorno agli accampamenti e la pietra che servì d'altare ai pellegrini. L'aspetto di sì grande disastro, impose fine alle discordie, frenò le ambizioni, e riaccese lo zelo per là liberazione de' Santi Luoghi. Profittarono i capi della terribile lezione facendo buoni ordinamenti per l'osservanza della disciplina. Cominciava la primavera, coprivansi le campagne di verdure e di fiori; spuntavano le messi, e il fertile clima, il bel cielo della Bitinta, la certezza delle vettovaglie, la buona unione de' capi, l'ardore de' soldati; tutto insomma facea presagire ai Crociati che Dio fosse per benedire alle loro armi e che si preparasse a loro migliore fortuna di quella che i loro predecessori di cui calpestavano le ossa, avevano incontrata. I Crociati, partendo da Ersec, dovettero passare più volte il Draco o Dracone, memorabile fra i pellegrini. I molti rivolgimenti di quel fiume gli hanno procacciato questo nome di Dragone o Serpente; che i Turchi dicono: la Riviera dai quaranta gradi. Giunti verso la fonte del fiume, siccome i pellegrini dovevano valicare l'Argantone non trovarono più altre strade che piccole viuzze in mezzo a precipizii e a discoscese rupi. Goffredo allora spedì avanti quattromila uomini a operar con asce e picconi per aprire le strade, e l'esercito seguitava a procedere ponendo di tratto in tratto delle croci di legno che segnassero la via per esso tenuta; quando le difficoltà della salita furono superate, apparve davanti ai pellegrini la pianura di Nicea. Proseguivano allora il cammino con grande allegrezza confidando totalmente nelle loro forze ed ignorando quelle del nemico. Non mai prima nelle campagne di Bitinta erasi veduto spettacolo più terribile e imponente di quello; stanteché il numero de' pellegrini superasse di gran lunga la popolazione di molte grandi città dell'oriente, e la loro moltitudine tenesse uno spazio quasi maggiore della vista umana. I Turchi accampati nella vetta delle montagne guardarono con terrore quello esercito composto di centomila cavalieri e d'innumerevoli fanti, fiore dei popoli bellicosi dell'Europa che venivano a contender loro il possesso dell'Asia. Guglielmo Tirense, fa una bella descrizione di Nicea e delle suo fortificazioni, che ancora sussistono a' dì nostri, e sebben guaste dal tempo bastano per fornire immagine di quello erano allora che i Crociati vi giunsero. Io mi limiterò a descrivere quello che ho veduto. Nicea è situata nella estremità orientale del lago Ascanio, alle falde d'una montagna boscosa che si estende in forma di semicerchio. Le mura dell'antica città hanno una lega e mezza di circonferenza, e le sovrastano molte torri parte rotonde, parte quadre, e parte ovali, pochissimo fra loro disgiunte; il loro numero fu di trecento settanta. La grossezza delle mura è dieci piedi e Guglielmo Tirense nota che vi si potea far correr sopra un carro; l'altezza poi è di trenta piedi; e se se ne eccettua il lato che è sopra al lago, negli altri sono molto ben conservate, veggendosi la loro costruzione e solidità sotto il manto di ellera che le copre. Nicea ha tre porte, la meridionale quasi affatto distrutta; l'orientale formata da tre archi di marmo, e avente nella parete esteriore un bassorilievo ove sono effigiati alcuni soldati romani armati di lancie e coperti dei loro scudi. Fuori da questa porta e poco distanti, sono le reliquie d'un acquedotto che recava nella città le acque della montagna. La porta settentrionale è grande e bella, formata, come le due altre, da tre archi di marmo grigio: e sopra le pareti della medesima avvi una colossale testa di Gorgone, che pittorescamente apparisce fra l'ellera e alcune altre piante murali. Le fosse che circondano la città presentemente sono quasi in tutto colmate. Giungendo a Nicea per la strada di Civitota, si entra nella città per una larga breccia fatta in una torre di mattoni; ma il viandante, con suo non piccolo stupore invece di trovar case, palagi e vie, vede da tutte le parti campi coltivati, piantagioni di gelsi e di olivi...! cammina per lunghissimi viali di cipressi e di platani e finalmente giunge all'umile e povero villaggio d'Isnid abitato da pochi Greci e Turchi.
Giunti che furono i Crociati davanti alla città, ognuno dei capi pose l'accampamento che doveva tenere durante l'assedio. Goffredo ed i suoi due fratelli posersi dalla parte orientale, ove ancora a' dì nostri le mura sembrano inespugnabili, Boemondo, Roberto conte di Fiandra, Roberto duca di Normandia, e il conte di Bloase piantarono le loro tende dalla parte occidentale e settentrionale. Al legato Ademaro e al conte Raimondo di Tolosa che giunse ultimo al campo, fu asseguata la parte meridionale; dalla parte del lago non si pose alcuno. Goffredo e Raimondo erano spalleggiati dalle montagne; ma dietro a rutti gli altri accampamenti cristiani stendevasi vasta pianura soltanto da alcuni rigagni interrotta.
Fino dal cominciar dell'assedio, le armate greche e italiane portarono viveri ed ogni sorta e munizioni da guerra agli assediatori. Lo storico Fulcherio Carnotense, annumera nel campo cristiano dieci e nove nazioni diverse di costumi e di lingua; e dice: "Se un Inglese o un Tedesco mi parlava, io non sapeva che rispondermi; ma sebbene divisi per le favelle, pareva che l'amor di Dio, comune a tutti, non facesse di noi che un sol popolo. Ogni nazione aveva il suo quartiere chiuso con palizzati; e occorso difetto di pietre e di legname per la costruzione de' ripari, furono adoperati a questo effetto gli ossami de' Crociati rimasti senza sepoltura nelle campagne di Nicea; servendo la distrutta natura sempre alla operosità della vivente, nonostante la singolarità della umana ragione", sopra che, dice, con qualche piacevolezza d'acume, Anna Comnena, che fu trovato spediente mirabile di fare a un tempo la sepoltura pei morti e il ricovero pei vivi. In ogni quartiere eransi rizzate magnifiche tende che servir dovevano da chiese e nelle quali i capi e i soldati convenivano per le religiose ceremonie. Varii segnali di guerra, come tamburi, corni sonori e gradati da alcuni pertugi per le voci, chiamavano i Crociati ai militari esercizi. I baroni e i cavalieri portavano il giaco; sulla sopravesta d'ogni scudiere scendeva una sciarpa azzurra, rossa, verde e bianca; ogni guerriero era fornito di elmo, sendo inargentato quello de' principi, d'acciaio forbito quello de' gentiluomini, e di ferro quello de' soldati. Gli scudi de' cavalieri erano rotondi o quadri; quelli de' fanti erano lunghi. Armi offensive erano la lancia, la spada, una daga detta Misericordia, la mazza ferrata, la frombola che scagliava pietre o palle di piombo, l'arco e la balestra, non conosciuta allora dagli Orientali. I guerrieri d'occidente in effetti, non erano quei combattenti coperti da quelle gravi armature di ferro descritte dagli storici del medioevo, e che furono introdotte in Europa per imitazione de' Saraceni. Per mantenere e per richiamare negli ordini i soldati, i principi e i cavalieri portavano nelle bandiere immagini e segni in diversi colori, come scudi, stendardi, leopardi, lioni, stelle, torri, croci, alberi asiatici, occidentali e simili. Alcuni avevano fatto rappresentare sulle loro armi uccelli viaggiatori per essi incontrati nel viaggio, e che mutando climi col variare delle stagioni erano a' Crociati come simbolo del loro pellegrinaggio. Questi segni giovavano a mantenere e ravvivare il valore sul campo di battaglia, e dovevano essere un giorno attributi di nobiltà presso i popoli d'Occidente. Nelle contingenze gravi, le deliberazioni facevansi dal concilio de' capi; nelle ordinarie ogni conte, ogni signore comandava a' suoi a suo senno; presentando così l'esercito cristiano l'immagine d'una repubblica armata, nella quale apparendo effettuata la comunanza de' beni, legge sovrana era' l'onore, e unico legame la religione. Tanto era grande lo zelo di tutti che i capi non sdegnavano, occorrendo, gli uffici de' soldati e i soldati non mai detrattavano la militar disciplina. S'aggiravano di continuo i sacerdoti per le schiere a fine di ricordare ai Crociati le massime della morale evangelica; né furon indarno le loro predicazioni, se si deve prestar fede agli scrittori contemporanei, per lo più molto severi verso i campioni della Croce nelle loro narrazioni, e pure concordansi in affermare, che, durante l'assedio di Nicea i comortamenti de' Cristiani furono al sommo virtuosi ed edificanti. Questa santa milizia ( dice il cronista Baudrì ) era l'immagine della Chiesa di Dio, e Salomone reggendola arebbe potuto con ragione esclamare: "Oh, quanto tu sei bella, amica mia, tu rassomigli al tabernacolo di Ceder! Oh, Francia, regione che meriti preferenza sopra tutte, quanto erano belle le tende de' tuoi soldati nella Romania!"
Nei primi giorni dell'assedio i Cristiani tentarono varii assalti nei quali fecero prodigi di valore, ma infruttuosi. Chiligge Arslan che aveva chiuso in Nicea la sua famiglia e i tesori, non pretermetteva, con frequenti messaggi, di rinfrancare il coraggio del presidio, e fece raccolta di tutti i guerrieri che seppe trovare nella Romania per accorrere in soccorso degli assediati. Diecimila cavalieri mussulmani, valicate le montagne, con i loro archi di corno e con buone armature di ferro, furono in un subito nella valle di Nicea e inoltraronsi fino ai quartieri del conte di Tolosa. Avevano i Crociati presentito il loro arrivo e stavano parati a riceverli. Tutti i capi erano in armi colle loro schiere. Il legato, sopra il suo cavallo da battaglia percorreva gli ordini, invocando ora la protezione del cielo e ora la pietà bellicosa de' pellegrini. Cominciò la zuffa, l'antiguardo de' Mussulmani andava cedendo, ma un rinforzo di cinquantamila cavalieri lo sostenne. Conducevali il sultano di Nicea, e col suo esempio e con le parole procurava concitare il loro coraggio. I due eserciti ( dice Matteo di Edessa ) scontraronsi con egual furore; vedevansi sfavillare gli elmetti; gli scudi e le spade; rimbombava da lunge l'urto delle corazze e delle lande percosse nella mischia; grida spaventevoli spandevansi all'aura; i cavalli al fragor delle armi e al rombo degli strali imbizzarrivansi; tremava la terra sotto i piedi de' combattenti, e la pianura d'arme e di strali era disseminata. Alcuna fiata i Turchi precipitavansi nelle file de' Crociati, alcun'altra combattevano da lungi saettando; ora fingendo fuggire, più impetuosi e fieri ritornavano all'assalto. Goffredo, il di lui fratello Baldovino, Roberto conte di Fiandra, il duca di Normandia Boemondo e il prode Tancredi, accorrevano ovunque ove il pericolo si dimostrava maggiore e ovunque o sconfiggevano il nimico o lo ponevano in fuga. S'accorsero bene i Saraceni che trovavansi alle mani con nimici molto diversi dalla indisciplinata moltitudine dell'Eremita e di Gualtiero. Durò, questa battaglia, nella quale i mussulmani combatterono con disperato valore, senza però obliare gli strattagemmi di guerra, dal mattino fino a notte. Vinsero i Cristiani perdendo duemila compagni; gli islamici fuggironsi alle montagne, lasciando quattromila de' loro morti sul campo. Imitarono in questa circostanza i Crociati il barbaro costume mussulmano di tagliare le teste ai morti e appiccatele alle selle de' loro cavalli, portaronle agli accampamenti, ove furono grandi le gioiose grida e le acclamazioni del popolo Cristiano. Mille e più di quelle teste furono con macchine scagliate nella città dove sparsero la costernazione. Mille altre chiuse dentro a sacca furono mandate in presente all'imperatore a Costantinopoli il quale molto applaudì alla vittoria de' Franchi; e tale fu il primo tributo che gli offerivano i signori e i baroni dichiaratisi suoi vassalli. Liberati i Crociati dal timore d'un vicino esercito, proseguirono l'assedio con vigore, accostandosi talvolta alle mura sotto gallerie con doppio tetto di assi e di graticci, e talvolta con torri sopra ruote la cui altezza era tale che dalla loro vetta dominavasi la città. Furono dati parecchi assalti ne' quali perirono, il conte del Foreze, Baldovino del Gande e più altri cavalieri, cui il popolo di Dio dette sepoltura ( dicono i Cronisti ) con sensi di pietà e d'amore, quali debbonsi a uomini nobili e illustri. Accesi in cupidità di vendicare gli uccisi compagni, i Crociati crebbero d'ardimento e più intrepidi che mai formando testuggine de' loro scudi, riparando le loro schiere con vaste coperte di vinci, discendevano nelle fosse, accostavansi a' piedi dei ripari e percuotevano il muro con arieti ferrati, o ingegnavansi divellerne le pietre con picconi ricurvi a uncino. Gli assediati dalle torri gittavano sugli assalitori pece accesa, olio bollente e sì fatte altre materie combustibili. Le macchine de' Crociati furono più volte consumate dalle fiamme e i soldati trovavansi scoperti agli strali e alle pietre che cadevano come fitta grandine. Quantunque l'esercito circondasse Nicea, avendo però ogni nazione assegnata la sua parte speciale da combattere, non facea alcun caso delle altre parti né della totalità dei progressi dell'assedio; e o perché poche fossero le macchine per la moltitudine de' combattenti; o perchè non ci fosse spazio sufficiente da adoperarne molte, pochi erano i guerrieri che s'accostavano a combattere le mura, ed ogni assalto che dava un corpo alla città serviva come di spettacolo agli altri che, disseminati per le circostanti colline, oziosamente riguardavano.
In un assalto dato dai soldati di Goffredo, un Mussulmano, che l'istoria ci rappresenta come guerriero di persona colossale e di forza straordinaria, operava prodigi di valore, disfidando i cristiani, e benché il suo corpo fosse di strali coperto, non rimetteva alcun punto alla sua audacia. Così accecato nel suo furore, per mostrare che non temeva di chi si fosse, gitta lunge da sé lo scudo, lasciando il petto scoperto e dassi a scagliare enormi pietre sopra i Crociati che s'affollavano a pie' delle mura; i quali senza potersi difendere, e presi da spavento, miseramente soccombevano. Goffredo a quella vista non potendo più frenare il suo sdegno, prende una balestra e preceduto da due scudieri che tenevano i loro scudi avanti di lui, saetta con vigoroso braccio uno strale, e il mussulmano, ferito nel cuore cade esanime sul muro, in cospetto di tutti i Crociati che fecero alti plausi di sì bello saettamento. Spaventaronsene forte gli assediati e le mura mezzo dirute, rimasero alcun poco senza difensori. Sopravvenne la notte a dar sosta al furore de' combattenti, e a ristorare il coraggio degli assediati. Il dì seguente con l'apparire del sole, vidersi tutte le breccie, fatte alle mura, riparate e nuovi muramenti sorgevano dietro ai ripari diroccati. Grande apparecchio di difesa avevano gli assediati preparato, quali considerando gli assediatori cominciarono a intiepidirsi nelle offese, sicché per ispingerli alla zuffa ( dice Alberto Aquense ), fu mestieri di non poche sollecitazioni ed esempi de' più valorosi. Un solo cavaliere normando ardì escire dagli ordini e passare il fosso, ma fulminato subitamente con pietre e saette, mal difeso dall'elmo e della corazza, cadde, vedendo ciò tutti i pellegrini, che contentaronsi invocare per la sua anima la divina misericordia. Frattanto gli assediati, mediante uncini di ferro, trassero sulle mura il di lui cadavere e l'appiccarono a' merli quale trofeo di loro vittoria; scagliandolo dipoi, con una macchina da balestrare, nel campo cristiano, ove i compagni feciongli gli onori del seppellimento, dandosi pace dello averlo lasciato aramazzare senza soccorso, col pretestare aver egli ricevuta la palma del martirio ed essere entrato nell'eterna beatitudine. A riparare le perdite degli assediati entravano ogni giorno in Nicea, dalla parte del lago Ascanio, nuovi soccorsi, del che non s'accorsero i Crociati se non dopo cinquanta giorni d'assedio. Tennero consulta i capi, mandarono al porto di Civitota gran numero di cavalieri e di fanti con ordine di trasportare sulle rive del lago i battelli e i bastimenti forniti dai Greci. Questi navigli, de' quali alcuni potevano contenere fino a cento combattenti, furono posti sopra carri tirati da cavalli a da uomini robustissimi. In una notte fu eseguito il trasporto dal mare fino al lago Ascanio; il quale nel dì seguente fu coperto di barche con entrovi i più intrepidi soldati. Spiegavansi all'aura i cristiani vessilli, e tutto il lido echeggiava di grida bellicose e per il clangor delle trombe, sconfortandosi forte di ciò e stupendone i difensori di Nicea. Nel medesimo tempo s'accrebbe il coraggio de' pellegrini per certa torre o galleria di legname, costruita da un guerriero lombardo, la quale resisteva all'azione del fuoco, alle percosse delle pietre e a tutt'altre offese nimiche. Spinserla dapprima contro formidabilissima torre, combattuta già da vari giorni per i soldati di Raimondo Sangillese con poco frutto; ma gli operai chiusi nella medesima scavarono la terra sotto il muro, onde la nimica fortezza cominciò a barcollare sulle sue fondamenta. Sopravvenuta la notte, con orribile fracasso, e tale che tutto il campo quasi per concussione di terremoto ne fu desto, cadde rovinosamente a terra. Al nuovo giorno la moglie del sultano con due suoi figliuoletti volendo fuggirsene per il lago, cadde nelle mani de' Crociati, e venuta la novella di sua presura nella città, vi accrebbe lo spavento, perdendo i Turchi la speranza di difender Nicea; allora l'astuto Alessio trovò lo spediente di sottrarne il conquisto ai Crociati.
Questo principe, che fu rassomigliato all'uccello il quale svolazzando dietro al leone si pasce de' di lui avanzi, informato dello stato di Nicea, erasi inoltrato fino a Pelecane, e dissimulando il suo intendimento, sotto colore di amicizia, aveva mandato all'esercito un piccolo corpo di milizie greche e due capitani di sicura fedeltà, con secreta istruzione che presentandosene il destro, s'impossessassero con arte di Nicea. Riesci' difatti a uno di que'due capitani appellato Bitumita di entrare nella città, ed ivi magnificando a quelli abitatori l'immane ferocia de'Latini, l'inesorabile loro natura nelle vendette, gli orrori del sacco che poteva seguire, confortavali che si arrendessero all'Imperatore di Costantinopoli, come unico rimedio a prevenire tanta sciagura. I cittadini spaventati porsero orecchio alle di lui proposte, sicché quando i Crociati si accingevano a dar l'ultimo assalto, i vessilli di Alessio apparvero sulle mura e sulle torri. Ne stupirono i Crociati; quasi tutti i loro capi ne montarono in furore; e i soldati ritiraronsi dalla pugna fremendo e ritornaronsi al vallo. Crebbe maggiormente l'universale disdegno quando fu pubblicato divieto che non permetteva a' soldati di entrare, più che a dieci per volta, nella città per essi con l'effusione di molto loro sangue conquistata, e ove erano inestimabili ricchezze a loro, in premio delle sopportate fatiche, promesse. I Greci per giustificare il fatto ricordarono i trattati firmati con Alessio e i servigi prestati a' Latini durante l'assedio; nonostante i mali umori continuavano a dimostrarsi, e soltanto si acquietarono alcun poco mediante le generose elargizioni dell'imperatore.
Dopo ciò i capi de' Crociati andarono a ossequiare l'Imperatore a Pelecane, ed egli molto commendò il loro valore e gli colmò di presenti; ma la devozione di costoro e l'acquisto di Nicea parevanli lieve guadagno se non sottomettevasi eziandio l'altiero Tancredi, il quale non avevali ancora fatto il giuramento dell'obbedienza e della fedeltà. Fu a tale effetto adoperato Boemondo ed altri de' principali, che, perché è natura dell'uomo di tirare i suoi simili, quando gli sono superiori, a sua egualità, tanto importunarono il generoso Italiano, che finalmente più sforzato che persuaso, degnavasi promettere fedeltà all'Imperatore sol per quanto egli a' Crociati sarebbe fedele. Generosissimo Italiano e veramente degno della sua patria, perché non solo abborrì dal comune invilimento de' suoi compagni, ma da quelli alla indebita sottomessione fuor d'ogni moderazione stimolato, volle nondimeno piuttosto promettere che giurare e anco alla promessa con nobile condizione condescese. Questo omaggio però non satisfece ad Alessio, né poteva soddisfare, né forse poté poco a farlo risolvere di rimandar libera la moglie con i figliuoli del sultano e di trattar generosamente i turchi prigioni, del che non lievemente s'ingelosìrono i Crociati argomentandone ch'egli fendesse più all'amicizia dei Saraceni che alla loro. Ridestaronsi pertanto i mal repressi odii; furonvi minacce ed accuse dall'una e dall'altra parte, per modo che qualunque piccola cagione sarebbe stata efficace a suscitar guerra in tra Crociati e Greci.
Tratto da:
"Storia delle crociate" scritta da Giuseppe Francesco Michaud, Volume 1, Firenze 1842